Doom: The Dark Ages
Non sono un genio, non sono un visionario, ma so quello che voglio… e me lo prendo. Invece che lasciarmi coccolare dalla visione dell’autore o accecare dalla smania di completismo, nei videogiochi faccio solo quello che mi piace, niente di più.
Doom: The Dark Ages ha un problema di ritmo, grosso, ma solo se diventi schiavo di una mappa pensata per obbligarti al 100%. Tutto è in bella mostra, da subito, dal bel game design al collezionabile cretino, ed è difficile resistere alla tentazione di vedere e toccare ogni cosa, ma è una pessima idea. La mappa ti rallenta, spezzetta il flusso, ammoscia il testosterone, e questo gioco ha bisogno di sfasciarsi continuamente contro un muro per dare il meglio di sé.
Certo, l’ambientazione medievale è solo una comparsa e vi sukate lo stesso i draghi (che poi, tutto sommato…) e i mech (mortacci loro), ma sono solo una discutibile e misera parte di un pacchetto bello cicciotto, pieno di bei momenti e, nel complesso, pure capace di deviare a sufficienza dai due capitoli precedenti. Si poteva fare meglio, mille armi possono essere solo un peso senza nemici a richiederne il piombo in esclusiva, ma ognuno, a suo godimento, può decidere se sfruttare o meno l’intero arsenale.
Non sono un genio, dicevo, e sicuro nemmeno un eroe, che io mi sono goduto il secondo di diciottomila livelli di difficoltà senza patire fastidio, ma le opzioni ci sono tutte per renderlo pure sfidante per ogni necessità. A conti fatti, c’è davvero poco di cui lamentarsi, sempre che non vogliate sorbirvi il solito abbozzo di trama che vabbè.
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