Heading Out
Per raccontare una bella storia dovrebbero servire un buon protagonista, delle motivazioni interessanti e un antagonista di impatto. Stavolta no.
Heading Out costruisce tutta la sua narrazione sul videogiocatore, sulla sua vita e le sue paure, ne sfrutta i punti deboli per mettere in piedi un racconto che sembra parlare a lui e a lui solo, lasciando sullo sfondo tutto quello che appare su schermo. Chi è davvero Jackalope, pilota spericolato sulle strade americane, non ha importanza, lui è quello che voi volete sia.
Ma c’è anche un gioco vero dietro l’esperienza narrativa, almeno all’apparenza. Al giocatore viene chiesto di raggiungere la sua nemesi attraverso scelte e compromessi che ne pregiudicano alcuni parametri ed è difficile, a volte impossibile, mantenere l’equilibrio necessario. Sarà quindi necessario piegarsi alla storia, rinunciare ai propri principi, pena la ripetizione dell’atto in corso.
Ed è qui che il gioco sembra mostrarsi per quello che è davvero. Ripetere un atto è un buon modo per incontrare personaggi nuovi e provare scelte diverse, certo, ma mette anche in risalto l’impossibilità di rimanere fresco e avvincente in quelle occasioni. Non tutto si ripete, ma qualcosa sì, ed è sempre meno appagante della prima volta. Per evitarlo, il gioco sembra guidare la fortuna in modo troppo evidente, troppo spesso arriva a salvarci proprio quando ne abbiamo bisogno.
Seppure non consiglierei diverse run, però, la prima avventura è in grado di lasciarti quel dubbio, quella sensazione di pericolo e necessità che rendono il viaggio, peraltro condito da un lavoro artistico e da una colonna sonora di grande impatto, una sfida e non una passeggiata di salute. È stato bello… sulla strada.
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